Ci sono cicatrici difficili da nascondere che disegnano sul nostro corpo segni indelebili di sofferte battaglie personali ed altre che nessuno vede, celate alla vista ma altrettanto profonde e dolorose. Hotel Silence, ultimo romanzo dell’autrice Audur Va Ólafsdótti, eletto dai librai islandesi “Libro dell’anno 2016”, ci racconta con delicato realismo quelle ferite del fisico e dell’anima che ognuno di noi porta con sè.
Jònas ha quarantanove anni e una vita che si sta implacabilmente sgretolando, lasciando dietro di sé solo vuoto e disillusione. Una ninfea tatuata sul torace, all’altezza del cuore come un marchio di eterna sofferenza, sembra voler proteggere un pulsare tormentato che desidera solo spegnersi. Ha appena divorziato dalla moglie quando viene a sapere che la figlia Vatnalilja (in islandese “ninfea”) non è in realtà sua, ma il risultato di un’avventura prematrimoniale. La madre, persa nella malinconica confusione della demenza senile, si trova in una clinica privata. Jònas si sente improvvisamente estraneo a se stesso e alla vita che stancamente conduce. Ritrova dei vecchi diari in cui ripercorre la giovinezza di un uomo in cui non si riconosce più: il ragazzo che scrive è andato perso nel corso degli anni. Nulla ha senso, solo l’idea del suicidio assume i contorni dell’unica soluzione possibile. Il pensiero di farla finita si insinua prepotente fino a diventare un’ossessione. Ma in che modo porre fine ad un’esistenza che ormai si trascina fiacca? Jònas ha una sola certezza: non vuole che sia la figlia a ritrovare il suo corpo. Decide, quindi, di scappare all’estero e sceglie come esilio finale un paese di guerra di cui ha sentito parlare al telegiornale. Saltare per aria su una mina abbandonata o impiccarsi in una camera d’albergo per far trovare il cadavere a degli estranei? In ogni caso, un solo esito. Parte con un trapano in valigia, utile per fissare il cappio, e un cambio d’abito. Ma in realtà, come sempre accade quando l’intenzione non corrisponde a verità, portare a termine un progetto così ben pianificato si rivela tutt’altro che semplice. Si ritrova, infatti, a dover affrontare le terribili cicatrici di un popolo che cerca di rialzarsi da una guerra che sembra in fase di esaurimento: corpi mutilati dalle mine anti-uomo e cuori in apnea per il troppo dolore. Giunge in un paese indefinito di una terra quasi abbandonata in cui è sopravvissuto un solo piccolo albergo, l’Hotel Silence, gestito da una coppia di fratelli che lotta quotidianamente per convivere con i ricordi di una guerra lacerante. Jònas, pronto al suicidio, si ritrova giorno dopo giorno a rimandare il momento della scelta definitiva. Comincia a svolgere qualche lavoretto di ristrutturazione per i proprietari dell’albergo e in seguito per tutti gli abitanti del paese. Si identifica nella coscienza di un popolo che nonostante la distruzione ogni giorno si alza e va avanti con dignità e speranza. Conosce persone, entra nelle loro storie e riscopre il senso della continuità nonostante il dolore.
È l’inizio della sua seconda vita in cui la prospettiva della sofferenza ha cambiato colore: non solo nero, ma anche sfumature di luce in cui c’e posto per le seconde possibilità.
Lucy